METAL.IT – “The light of a new sun” Review -
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Old fashioned, retrò, vintage, … quante definizioni sono utili a definire un suono “classico”, che attinge dalla tradizione per far rivivere alcuni dei momenti più magici della storia del rock? Moltissime, soprattutto oggi che un certo ritorno di “arcaiche” suggestioni musicali sembra aver riconquistato i favori del pubblico e del business discografico.
Non basta, però, una semplice etichetta per recuperare davvero lo spirito autentico dei maestri, assimilare talmente bene la loro immarcescibile lezione da rendere l’aderenza a consolidati canoni sonori una faccenda trascendente ogni eventuale parametro temporale, impossibile da giudicare perseguendo esclusivamente modelli valutativi orientati alla pura logica.
Anche se mi rendo conto che ormai è un argomento super - inflazionato, è ancora una volta necessario tirare in ballo l’emozione, l’unica veramente in grado di rappresentare l’ago della bilancia nel marasma delle produzioni revivalistiche cui ci ha abituato la scena musicale attuale.
Prendete questo disco solista (il terzo, per la cronaca) di J.C. Cinel, vocalist (ma anche eccellente chitarrista) noto per la militanza nei favolosi Wicked Minds e per aver recentemente contribuito a qualificare “Back on the tracks” della Jimi Barbiani Band come un oggetto prezioso da conservare gelosamente: impossibile non riconoscere nei suoi solchi l’inconfondibile tratto artistico di modelli aurei quali Bad Company, The Allman Brothers Band, The Who, Led Zeppelin, CSN&Y, Eagles, James Taylor e Tom Petty, così com’è agevole escludere dalla miscela di rock, blues, soul, country, southern e west-coast sound in essi contenuta, ogni qualsivoglia tentativo d’innovazione.
Eppure basta un ascolto a quest’oretta scarsa di vibranti note per accorgersi di quanto sia “facile” distinguere chi è capace di ripercorrere con cura e vocazione sentieri già ampiamente tracciati, da quelli che invece tali percorsi li hanno solamente studiati senza “viverli” in prima persona.
Il segreto? La cosiddetta “pelle d’oca”, quell’effetto sensoriale che vi troverete a veder materializzato in maniera pressoché costante sull’epidermide durante tutta la durata di “The light of a new sun”, un disco privo di superflue sofisticazioni, schietto, intenso, ma anche alquanto elegante, dominato da un cantante dotato di una passionalità e di una predilezione degne delle grandi voci del rock anglosassone.
Musicisti di provata fama e competenza (un nome su tutti … Johnny Neel tastierista proprio dell’Allman Brothers Band e dei Gov't Mule, a elargire con la sua presenza il definitivo imprimatur di autenticità ispirativa all’opera) forniscono l’adeguato supporto esecutivo ad un programma francamente irresistibile, in cui uno spessore compositivo uniformemente assai elevato non agevola nella selezione degli episodi emergenti.
Potrei, infatti, tranquillamente parlare dell’intensità palpabile di "Wheels of time” e “Fallen angel”, dell’avvincente pathos espressivo della title-track, della focosa "Sweet and wild”, del blues n’ roll arioso ed evocativo di "Nashville nights”, o ancora dell’agile fraseggio funky (un po’ alla Trapeze) di "White soldier” e dell’estetica toccante e immaginifica della ballata esotico-acustica “A place in the sun”, senza rischiare di commettere soverchi errori di omissione di merito e tuttavia anche la spigliatezza di “Think of myself”, la vellutata solarità “on the road” di “Living on the highway”, nonché il languore raffinato e agreste di “Islands” e “California sunset” manifestano imponenti pregi, finendo per relegare l’intera operazione ad una circostanza puramente soggettiva, anche in misura maggiore di quanto siano normalmente tali iniziative.
Il flavour può anche essere piacevolmente antico, ma solo effetti tanto emozionanti e genuini godono di una giurisdizione permanente … se concordate con me in quest’affermazione non fatevi sfuggire “The light of a new sun”.
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